domenica 28 settembre 2008

Goodbye Dragon Inn



L'ultima notte prima della chiusura, un giovane giapponese entra in un cinema. La sala sembra vuota, priva di vita; ma c'è qualche persona, e quacuno che non sembra esserlo...
Una bigliettaia zoppa e un giovane proiezionista, pur lavorando nello stesso cinema giorno dopo giorno, non riescono mai ad incontrarsi. L'ultima notte, come ogni notte, la ragazza taglia a metà il suo dolce della fortuna e, tenendolo come un cuore, va verso la sala proiezioni, per scoprire che lui non è lì. Allora va a cercarlo nel cinema-labirinto. Ma i due non riescono ad incontrarsi. Il film finisce, la gente se na va, la porta viene chiusa. Il proiezionista vede che la bigliettaia non ha portato via la sua pentola. Guardandoci dentro, vede la metà del dolce, così corre fuori a cercarla. Prima che lo spettacolo sia finito, sul grande schermo viene proiettato il film del 1666, "Dragon Inn" di King Hu. Il cinema però è diventato un luogo di ritrovo per pochi gay locali, che praticamente passano più tempo nei bagni che in sala. Il giovane giapponese, entrato per trovare qualcuno con cui avere rapporti, si imbatte in due uomini che assomigliano molto agli spadaccini del film. Ormai sono vecchi, siedono in una sala buia e vuota, guardando il loro stesso film, piangendo... Sono reali o solamente spiriti di un cinema estinto che non voglio più andarsene?

Il film di Tsai, di grande intensità e forza emotiva (ma che richiede grandi energie allo spettatore), celebra questa età dell’oro con uno stile straordinario, che ancora sorprende per la nettezza, in cui il solo insistere su una particolare inquadratura vuota riesce a riempire di significati e di malinconia un luogo (una sala, un corridoio, l’atrio di un cinema). E poi c’è la poetica della solitudine e della casualità già presente nel resto del suo cinema, che si serve di interni lerci e degradati per parlarci di un’umanità sempre in cerca di una mano tesa a cui aggrapparsi. Al contrario di un film come The hole, Bu san è alquanto pessimista: l’uomo è solo una briciola imprigionata negli intrecci della casualità (vedere la scena in cui il proiezionista raccoglie l’acqua piovana in un secchio e poi la getta fuori, dove piove: una bella metafora della frustrante inutilità di cui il protagonista si sente preda nella sua realtà momentanea), dalla quale non si è certi di uscire. L’incertezza e la precarietà dei protagonisti governa il piccolo mondo antico di Tsai Ming-Liang.

lunedì 17 marzo 2008

Train de vie

Uno shtetl, un piccolo villaggio ebreo nell'Europa dell'Est progressivamente invasa dai nazisti. I quali stanno ormai per sopraggiungere. Che fare? Il matto ha un'idea: raccogliere il denaro sufficiente per mettere insieme un treno, travestirsi da nazisti e da deportati e tentare così di passare le linee. L'impresa ha inizio tra consensi e dissensi (nasce persino un'agguerrita cellula comunista). Si beffano i nazisti, si disorientano i partigiani, ci si incontra (sul piano umano) e ci si scontra (su quello musicale) con gli zingari. Finché si giunge in una terra di nessuno. Ma sarà proprio così? Romeno ebreo, Mihaileanu gira un film che non ha dietro le spalle la spinta della Miramax, ma che ben più di La vita è bella meriterebbe l'Oscar. Perché è girato con mano sicura, perché mescola ironia e profonda conoscenza della cultura ebraica, perché ha una musica travolgente, perché ha una prima e una seconda parte che non formano due film ma un tutt'uno.
Il più bel film sulla deportazione...!

mercoledì 12 marzo 2008

A history of violence



Tom Stall è il proprietario di un piccolo ristorante in una cittadina di provincia. Conduce una vita normale con la moglie e i figli fin quando un giorno si difende dall'aggressione di due feroci criminali uccidendo entrambi. La sua immagine finisce su tutti i media e spinge Carl Fogarty, un boss della mafia irlandese di Philadelpia ad andarlo a cercare. L'uomo è sicuro di aver riconosciuto in lui un delinquente che lo ha privato di un occhio e che era molto temuto nell'ambiente per la sua crudeltà. Tom deve difendere la sua famiglia.
Tratto da un fumetto di John Wagner il nuovo film di Cronenberg torna sui territori cari al regista: l'identità, la possibile schizofrenia, il rapporto tra realtà e apparenza. Anche lo stile narrativo gioca su questi elementi, tanto che il film potrebbe essere oggetto di una doppia recensione. Se lo si prende per come appare si tratta di un thriller molto stereotipato con buone dosi di esagerazione narrativa e di umorismo spesso involontario. Se invece lo si legge a partire dalla prima inquadratura si pensa al Cronenberg raffinato intellettuale che opera una rilettura sui generi per svelarne la fragilità e l'ambiguità.

I soliti ignoti



Gassman è Peppe, un pugile balbuziente in disarmo, Mastroianni è Tiberio, che bada al pupo mentre la moglie è in prigione, Salvatori è Mario, perditempo bonaccione che si fa mantenere dalle vecchie zie, Murgia è Ferribotte, siciliano geloso della sorella Carmela (Claudia Cardinale), Pisacane è Capannelle, dalla storica fame arretrata. Poi c'è Totò, il "maestro". Si presenta l'occasione per un colpo facile: scassinare una cassaforte in tutta tranquillità, sfondando un sottile muro che divide un'abitazione privata dal monte dei pegni. La "banda" prepara tutto come ha visto fare nei film, usa tutti i mezzi necessari, riprende persino il luogo del colpo. Alla fine agiscono, aprono porte e sfondano il muro, solo che per un insignificante cambio di mobili si trovano nella cucina dello stesso appartamento. Nel frigorifero c'è pasta e ceci. Siedono al tavolo e... cenano. Monicelli alla regia. Capolavoro per molte ragioni. Il "comico" che diventa "cosa seria", non solo espressione di gag estemporanee o di gestacci scontati e conosciuti. La memoria del cinema rimanda alcune sequenze magnificamente storiche: la lezione di cassaforte di Totò, Gassman balbuziente che conta il tempo e dieci secondi diventano un minuto, il muro interno sfondato per niente. I soliti ignoti rappresenta un "sorriso intelligente".

domenica 9 marzo 2008

Vogliamo vivere

Dopo l'invasione nazista, una compagnia di teatro polacca cerca di mettere in scena il dramma Gestapo, ma viene bloccata dalla censura tedesca. La compagnia, guidata da Josef (Jack Benny) e Maria (Carole Lombard) Tura, ripiega allora sull'Amleto, il cui celebre monologo, To be or no to be - da cui il titolo originale - finisce per divenire lo sfondo di una vorticosa sequela di equivoci e di inganni ai danni dei nazisti, oltre che degli intrighi amorosi della bella Maria. Ritmo travolgente, battute irresistibili, incroci continui tra realtà e palcoscenico, recitazione magistrale sono gli ingredienti di questa feroce satira in cui la vita di teatro finisce per mescolarsi di continuo con le vicende belliche. Lubitsch riesce a sposare la comicità delle situazioni a un messaggio fortemente politico, anche se all'epoca della sua uscita l'utilizzo di un registro lieve e divertente in un'epoca tragica come quella nazista fu giudicato quasi sconveniente.